Persecuzioni alla “ex” tramite Facebook: per la Cassazione è stalking

Ci risiamo, ma dovremo abituarci: Facebook, il social network più famoso e popolato, fa ancora parlare di sé per fatti di cronaca giudiziaria.

Stavolta si tratta del reato di stalking, nel caso deciso dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 25488 depositata lo scorso 24 giugno 2011 (che si pubblica integralmente in calce).

Ma cos’è lo stalking e cosa c’entra Facebook?

Con il termine “stalking” (che in inglese significa letteralmente “tendere un agguato), siintende un insieme di comportamenti molesti e continui, costituiti da ininterrotti appostamenti nei pressi del domicilio o degli ambienti comunemente frequentati dalla vittima, ulteriormente reiterati da intrusioni nella sua vita privata alla ricerca di un contatto personale per mezzo di pedinamenti e telefonate indesiderate, a volte dal contenuto osceno.

Nell’ordinamento giuridico italiano tale fattispecie è stata tipizzata diventando reato nel 2009, con l’introduzione nel codice penale dell’art. 612 bis (rubricato “Atti persecutori”) a opera del D.L. 23 febbraio 2009 n. 11, convertito in legge 23 aprile 2009 n. 38.

Nello specifico tale disposizione punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni “chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.

La condotta appare molto ampia e secondo alcuni sarebbe a tal punto indeterminata da far dubitare della costituzionalità della norma per violazione del principio di legalità (art. 25, comma 2 Costituzione).

Secondo la giurisprudenza, possono concretare le suddette molestie e minacce anche i comportamenti perpetrati in via telematica mediante l’utilizzo di un social network, come nel caso segnalato: un uomo, dopo la rottura del rapporto di convivenza, ha perseguitato la sua “ex” minacciandola per mesi con messaggi inviati su Facebook e giungendo a percuoterla.

In realtà la pronuncia sopra richiamata non costituisce una novità assoluta, né per il contesto (in più della metà dei casi lo stalking si manifesta nella relazione di coppia), né per il mezzo tecnologico utilizzato: quasi un anno fa’, con la sentenza 30 agosto 2010 n. 32404, la stessa Cassazione Penale confermava la custodia cautelare nei confronti di un ragazzo resosi protagonista di “continui episodi di molestie, consistiti in telefonate, invii di sms, messaggi di posta elettronica e tramite Facebook, anche nell’ufficio dove lei lavorava

In tale vicenda la condotta persecutoria e ossessionante era giunta sino alla diffusione, sul noto social network, di un filmato che ritraeva un rapporto sessuale tra l’indagato e la vittima; ciò, sommato ad altri episodi intimidatori, provocava nella donna un grave stato di ansia e di vergogna che la costringeva a dimettersi.

Beninteso, parlando di questi fatti e dei relativi risvolti penali, non si tratta di dar la caccia alla notizia demonizzando lo strumento tecnologico, ma di sensibilizzare gli utenti riflettendo sull’uso che viene fatto dello strumento stesso.

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 15 aprile – 24 giugno 2011, n. 25488

Fatto

Con il provvedimento impugnato veniva parzialmente confermata l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno in data 6.12.2010 laddove con la stessa veniva applicata nei confronti di C. M. la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa per i reati di cui agli artt. 612 bis, 582 e 614 c.p., ed in particolare per aver violato il domicilio in Salerno di P. D. il 17.5.2010, per aver costantemente minacciato la P. dopo che la stessa aveva interrotto la convivenza con l’indagato, con messaggi inviati tramite il sito internet Facebook dal 3.9.2010 al 16.11.2010, e per aver infine in quest’ultima data percosso la P. cagionandole lesioni.

La sussistenza dei gravi indizi a carico del C. era ritenuta in base alle dichiarazioni della persona offesa e agli ulteriori elementi individuati a riscontro delle stesse.

Il ricorrente deduce violazione di legge, lamentando l’assunzione quali riscontri di certificati medici che per la maggior parte riportavano patologie riferite dalla stessa P., e all’inclusione fra gli stessi di un referto in data 29.5.2010 non esistente agli atti e relativo ad un periodo non contestato.

Diritto

Il ricorso è infondato.

L’ordinanza impugnata motivava invero in tema di gravità indiziaria ritenendo la parte offesa attendibile non solo per la conferma derivante da più certificati medici diversi da quello di cui il ricorrente lamenta l’irrilevanza, ma anche per gli apporti provenienti dalle dichiarazioni della madre della P., B. R. M., sui messaggi telefonici ricevuti dalla figlia e sulla manifestata paura della stessa di uscire dall’abitazione, e da quelle di C. L. sulla constatazione delle lesioni prodotte il 2.9.2010 e sull’atteggiamento aggressivo del C. nei confronti della P. nell’episodio del 27.9.2010. Detta motivazione, per la pluralità e la significatività degli elementi valutati, è logicamente inattaccabile dalle censure del ricorrente, indirizzate unicamente sui riscontri documentali, per i quali si propone peraltro una mera lettura in chiave difensiva dei relativi contenuti, e prive di specifiche doglianze sulla credibilità intrinseca della parte offesa.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese.

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